giovedì 29 maggio 2008

Una città che si sposta: la nuova emigrazione


Non c’è stato partito che in campagna elettorale non abbia promesso il rilancio del Mezzogiorno e adesso perfino la Lega, con Roberto Calderoli, dice che «la questione settentrionale non può essere risolta se non si affronta la questione meridionale».
È successo anche che Confindustria, Cgil, Cisl e Uil hanno firmato un nuovo documento comune per il Sud. E, ovviamente, non sono mancati gli appelli degli economisti ad affrontare l’annoso problema delle «due Italie».
Ma adesso, dopo il voto, chi si ricorderà di tutto questo?
Le persone in carne e ossa, intanto, cercano in prima persona una soluzione. Che spesso è la nuova migrazione da Sud a Nord. Che, ovvio, non è più quella degli anni Cinquanta e Sessanta, dei contadini poveri e ignoranti che con la valigia di cartone si trasferivano nel triangolo industriale per lavorare in fabbrica. Ma che, se è molto diversa qualitativamente, tocca però le stesse vette numeriche di allora. Ogni anno, infatti, si spostano dalle regioni meridionali verso quelle del Centro-Nord circa 270 mila persone: 120 mila in maniera permanente, 150 mila per uno o più mesi, dice l'istituto di ricerca Svimez. Un dato vicino a quello dei primi anni Sessanta, quando a trasferirsi al Nord erano 295 mila persone l’anno.
Una città intera che si sposta. Parlare di 270 mila uomini e donne che ogni anno vanno da Sud a Nord per lavorare o per studiare significa immaginare una città come Caltanissetta che si sposta tutta intera per trovare un futuro. Anche i contorni economici del fenomeno sono profondamente diversi da quelli del dopoguerra. Allora le rimesse degli emigranti generavano un flusso di risorse discendente, dalle regioni settentrionali a quelle del Mezzogiorno: servivano a mantenere le mogli o i genitori anziani rimasti al paese e magari a mandare avanti i lavori per costruire o ampliare la casa.
Oggi, al contrario, i soldi risalgono la Penisola, per sostenere gli studenti meridionali nelle Università del Nord o i lavoratori precari che non ce la fanno ad arrivare alla fine del mese, ma che tirano avanti con l’aiuto delle famiglie d’origine (comprese le pensioni dei nonni) con l’obiettivo di raggiungere poi il contratto a tempo indeterminato.
E' stato stimato che si arriva a circa 10 miliardi di euro che per tutti questi motivi (compreso il mancato sviluppo nel Sud) «emigrano» ogni anno dal Mezzogiorno al Nord. Il che non è esattamente il massimo per un Paese che dovrebbe ridurre le distanze tra le due Italie.
Spiega Delio Miotti (Svimez) che da tempo studia la nuova migrazione: «Negli ultimi anni si sta consolidando un trend: più di 120 mila persone all’anno si spostano dal Sud nelle regioni del Centro-Nord cambiando residenza. Sono in gran parte giovani, tra i 20 e i 45 anni, diplomati, ma uno su cinque è laureato. A questi bisogna aggiungere altri 150 mila che si trasferiscono al Nord come pendolari di lungo periodo, cioè per almeno un mese. Sono studenti o lavoratori temporanei che non si possono trasferire stabilmente perché non hanno un reddito sufficiente per mantenersi e per portare la loro famiglia nelle regioni settentrionali, dove la vita è più cara ».
Ma se è così, perché questa emigrazione non fa più notizia?
Forse perché chi emigra non ha problemi d’integrazione con la realtà del Nord: spesso è un giovane che usa Internet e parla inglese come i suoi coetanei settentrionali. Non diventa quindi un caso sociale, come negli anni Cinquanta. Quella di adesso è perciò un’emigrazione invisibile, silenziosa.
Ora non ci sarebbe niente di male se questo fenomeno fosse indice di una società mobile, all’americana. Il fatto è che in Italia questo movimento è a senso unico, con un progressivo impoverimento del Mezzogiorno. Per combattere questo trend i vari governi hanno provato a incentivare fiscalmente le assunzioni nel Sud. Ma non è solo un problema di incentivi. Paolo Sylos Labini, il grande economista morto nel 2005, che amava il Mezzogiorno, ripeteva che la questione meridionale prima ancora che economica è una questione civile. In altri termini, non è solo la domanda di lavoro qualificato che deve aumentare, ma devono migliorare anche le condizioni generali di vivibilità, dal funzionamento della pubblica amministrazione al controllo del territorio da parte dello Stato contro la criminalità. Altrimenti, in silenzio, i migliori se ne vanno.

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